Intervista di Maria Letizia Gagliardi

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Dal libro “La misura dello spazio“ interviste di Maria Letizia Gagliardi – ContrastoBooks

Cos’è la fotografia?

Scrivere con la luce e cioè raccontare il mondo che vediamo attraverso la riflessione che gli oggetti colpiti dalla luce rimandano sulla pellicola, ma, al di là della definizione, può essere varie cose, dipende da chi la usa. Dal reporter al paesaggista, dal pubblicitario al turista giapponese si potrà dare una risposta molto diversa. Per me la fotografia è la fotografia, non è arte, è fotografia; è lo strumento con cui, in tutto il Novecento, abbiamo avuto la conoscenza dei fatti del mondo. Morta la possibilità che la fotografia potesse essere arte, pittorialismo, con la nascita delle riviste, la fotografia è diventata uno strumento dell’editoria per dare un’immagine al mondo.

Com’è nata la sua passione per la fotografia?

Fino al 1970, avevo 16 anni, non mi ero mai interessato al mondo della fotografia. Poi a Bari mi è capitato di aiutare mio cugino nella stampa di gigantografie sulle lotte bracciantili in Puglia, per la sede dell’Istituto Gramsci. La stampa, soprattutto delle gigantografie, è molto particolare perché avviene in grandi vasche all’interno di una stanza nella semi oscurità; è un’esperienza veramente affascinante e molto forte, una specie di miracolo che avviene svolgendo e riavvolgendo un rotolo di carta nel bagno di sviluppo, in questo modo non sia ha mai la percezione della stampa finale, fino a quando non si stende per terra la carta perché si asciughi.

E’ rimasto affascinato dalla tecnica più che dal soggetto fotografato?

Prima di tutto la magia della fotografia e poi anche il tema; in quel periodo io cominciavo a sentire le cose che succedevano nel mondo perciò la fotografia mi sembrò uno strumento idoneo alla documentazione degli avvenimenti politici e dei grandi stravolgimenti sociali di quel momento.

Quali scuole, correnti, o fotografi hanno influenzato il suo lavoro?

Nel settanta si era in piena contestazione del sistema e, oltre ai grossi problemi sociali interni, si aveva anche grandissima attenzione ai fatti internazionali. La fotografia che raccontava dei problemi dell’umanità era sicuramente la più vicina al mio impegno nei movimenti.
Dopo aver preso coscienza che non tutti riusciamo a essere dei reporter di guerra, mi sono avvicinato a maestri come Cartier Bresson, Doineau, Evans, ma non ho mai voluto veramente seguire uno stile preciso di fotografia, consapevole del fatto che si deve fotografare tanto prima di capire come e cosa si vuole fotografare! Diciamo che dopo aver scoperto la fotografia, senza essere influenzato da nessuno, ho cercato informazioni per arricchire il mio bagaglio ed, ovviamente, mi sono avvicinato ed ho cercato di conoscere il lavoro dei fotografi più forti in quel momento.

C’era in me la voglia di sperimentare stili diversi per capire cosa realmente avrebbe potuto interessarmi.

Com’è iniziato il suo rapporto con l’architettura?

C’è sempre stato, l’architettura è parte fondante del contesto sociale in cui si agisce per cui ha sempre avuto un ruolo importante nella costruzione delle mie immagini, non è possibile fotografare senza dare una indicazione di luogo, di spazio. Anche se fosse un luogo di fantasia sarebbe comunque costruito e quindi formalmente significante.

Quindi l’architettura non come soggetto, ma come spazio di un vissuto, come quinta del palcoscenico urbano?
E’ stato sempre così per me. Quando faccio fotografia di paesaggio urbano, la cosa preminente è riuscire a vedere nella città, nei luoghi che fotografo la presenza dell’architettura come di una quinta importante, una presenza a cui siamo abituati e a cui ci affezioniamo. Può succedere che la fotografia diventi un ritratto se l’architettura è particolarmente interessante, ma nella maggior parte dei casi è letta come una parte integrata nel contesto.

Nel termine architettura sono racchiusi temi diversi, ma ugualmente importanti.

Qual è l’architettura che Lei ama riprendere?

L’architettura che corrisponde al territorio ed è concepita per integrare e agevolare la vita dell’uomo, ogni architettura che si inserisce nell’ambiente e costituisce una quinta o una profondità dell’immagine che è quasi necessario sottolineare. Per motivi di residenza e di committenza, da trent’anni a Roma, le opportunità più belle le ho cercate nel razionalismo, che resta l’ultima espressione di un’architettura in grado di competere con il rinascimento o con il barocco, questo continuo contrappunto romano mi ha sempre affascinato.

E come si pone nei confronti dell’architettura contemporanea che spesso si posizione nel contesto quasi come un oggetto di design?
Mi pongo nello stesso modo. Per esempio quando ho ripreso l’Ara Pacis di Meier, per un articolo di Giorgio Muratore, di impulso ho fotografato non tanto la presenza di questa nuova architettura in una parte della città di Roma che era intoccabile da trenta anni, quanto l’inutilità e il non senso di quell’architettura mettendo in evidenza il sacrato troncato della chiesa di San Rocco e la prospettiva della facciata di questa che è stata completamente tagliata dalla piattaforma di entrata all’Ara Pacis; ho fotografato lo stravolgimento di un tessuto urbano che non aveva bisogno di essere stravolto.

Non faccio un discorso di gusto estetico, ma di integrazione con la città, quello che conta nell’architettura è l’essere funzionale alla vita dell’uomo.

La fotografia, secondo lei, è documentazione o interpretazione?

La fotografia è sempre una personale interpretazione della realtà che si ha davanti agli occhi. Sono io che decido cosa inquadrare della realtà, quando scattare l’immagine e perché usare una pellicola a colori, bianco e nera o altro. In realtà è anche documento e lo è doppiamente perché afferma sia l’esistenza davanti alla camera di ciò che ho deciso di osservare, sia la mia presenza in quel momento e quindi la mia scelta.
A me non interessa l’astrazione, generalmente non tolgo dall’inquadratura gli elementi che possono dare un’indicazione temporale, mi capita di farlo solo quando c’è qualcosa che si oppone alla costruzione dal punto di vista grafico dell’immagine.

La conoscenza che ognuno di noi ha delle cose è mediata dalla sua esperienza personale. Lo

sguardo, l’osservazione del fotografo può essere considerata “critica architettonica”?

Assolutamente no ! Può essere però “critica sociale” perché la forzatura di un immagine può dimostrare il poco rispetto di un opera nei confronti della città in cui è stata realizzata, può evidenziare il modo in cui il governo centrale o locale programma trasforma la forma del nostro abitare sia agendo in prima persona, con edifici pubblici, che demandando a privati.

La questione del bello in architettura è molto complessa e volentieri la lascio a chi ha dedicato la sua esistenza per capirla, io mi limito ad osservare l’attinenza delle cose e la loro utilità, se la loro funzione è percepibile e ci aiuta a vivere meglio, se parte dal rispetto dell’ambiente e del contesto precedente, io mi fermo qui.

Per fotografare un’architettura è necessario studiare il progetto, il contesto, l’architetto…?

Capire prima di tutto il contesto, perché da quello dovrebbe nascere la pianta dell’edificio e quindi anche la natura degli spazi interni; poi conoscere l’architetto è importante, ma farsi dire, se possibile, l’idea da cui parte il progetto è ancora più importante.
E qual è il rapporto tra progettista e fotografo?

Molto dipende dagli architetti, alcuni passano tutta la giornata con me per fare le inquadrature e cercano di imporre un loro punto di vista, altri mi parlano del loro progetto durante una passeggiata o una cena e poi mi lasciano libero di dare la mia lettura, senza paura di affrontare la mia interpretazione del progetto.
Quanto è importante tornare più volte sul luogo?

Tornare nei luoghi è sempre incontrare altri luoghi, perché niente rimane immutato e tutto cambia in relazione alla qualità della luce.

Fotografare la città, fotografare l’edificio. Quali le differenze di metodo e di contenuti?

Fotografare un singolo edificio è forse più attinente al normale svolgimento dell’attività professionale in quanto tale e cioè offrire una prestazione tecnica in cui naturalmente confluiscono le premesse e il bagaglio culturale di ciascun fotografo. Fotografare una città è un viaggio lunghissimo e faticosissimo che costringe a prendere posizione e quindi dare un giudizio oltre che rappresentare uno dei temi più affascinanti della fotografia come osservare la quotidianità, la vita della gente all’interno di una struttura urbana, tema veramente complesso.

Fotografare il sociale, fotografare lo spazio. Quanto è importante la presenza dell’uomo nelle foto

di architettura? Quanto la presenza dell’uomo cambia l’immagine dell’architettura?

La presenza dell’uomo a volte è importantissima per dare giuste proporzioni, per mettere in scala gli elementi compositivi dell’immagine. Se non sbaglio negli anni sessanta in America la fotografia di architettura era molto animata soprattutto per gli interni, ma il risultato era più vicino ad una rappresentazione di tipo pubblicitario che documentario. Direi che la fotografia di architettura più affermata nel Novecento è quella che a partire da Atget ha guardato alla città deserta dove i segni della presenza dell’uomo si fanno evidenti non tanto per la sua presenza fisica ma intellettuale, etica o più semplicemente lavorativa.

Io non ho una posizione definita rispetto a questo, penso che molto dipenda dal soggetto che devo fotografare; se davanti a me ho un muro di cemento senza nemmeno una finestra devo trovare un riferimento per dare una proporzione, può essere un uomo o una macchina dipende dal momento. Di solito pongo l’astrazione al termine di un lavoro, alla fine del percorso dentro l’architettura mi dedico ad isolare dei dettagli, a fare delle astrazioni, superando il discorso descrittivo per entrare nell’anima del progetto.

Bianco e nero, toni di grigio, colore, digitale…Quale tecnica preferisce utilizzare per le sue foto.

Quanto la scelta della tecnica influisce sull’interpretazione dell’oggetto architettonico?

Il digitale per me è ancora un mondo lontano almeno per quanto riguarda la produzione di immagine.

Sono stato costretto da esigenze editoriali e di stampa a lavorare sulle mie immagini in postproduzione e quindi a trasformarle in file digitali che oggi sono la forma più consueta di consegna. Da una pellicola/colore si può ottenere un file in bianco/nero quindi ha senso parlare di che cosa si ritiene debba essere rappresentato a colori o in bianconero visto che si può partire da un’unica pellicola. Il lavoro che si può fare oggi in digitale è forse migliore del lavoro che si faceva in camera oscura e le possibilità di trasformazione dell’immagine che offre il digitale devono essere utilizzate se il lavoro lo richiede. Non sono un purista, è il fotografo che da un senso all’immagine non la tecnica che utilizza.
Comunque la posizione può essere storica/filologica o innovativa, io preferisco la prima e il grande punto di riferimento resta il lavoro di Walker Evans. L’assenza del colore e quindi la rappresentazione in toni di grigio chiaro e scuro aiuta a comunicare con più efficacia la realtà più nascosta di ciò che si fotografa e allo stesso tempo l’emozione profonda vissuta nell’atto del fotografare in cui, come ho detto prima, si è deciso qualcosa dopo aver affrontato un processo di visualizzazione, che è il frutto della nostra curiosità culturale davanti a una qualsiasi scena del nostro vivere quotidiano.

La qualità e il tipo di luce possono cambiare l’identità di un progetto?

Senza alcun dubbio un fotografo è in grado, usando qualità diverse di luce, di catturare l’attenzione o rendere spiacevole la visione di una immagine.
Ogni fotografo attribuisce alla luce un particolare interesse che è strettamente legato alla propria natura, alla formazione, al proprio piacere nel guardare, e raggiunge il proprio obiettivo se l’utente converrà che l’immagine è forte e bella; per questo motivo è difficile fare discorsi sulla luce, ognuno deve sperimentarla, deve imparare a conoscerla.

Io, che ho fatto anche un’esperienza di lavoro per la pubblicità, ho sempre ragionato con la luce esterna come ragiono in studio: uso la luce a seconda di quello che mi serve per comporre un’immagine e, avendo sperimentato tutti i tipi di luce, posso decidere con consapevolezza cosa fare quando, sul campo, giro con una bussola per analizzare l’orientamento dell’edificio. Certo parliamo di condizione di luce piena, poi ci sono tutte le variabili della luce naturale che ci danno la possibilità di trovare tantissime immagini e inquadrature; in questi casi, ovviamente, bisogna stare sul posto e aspettare.

Bruno Zevi affermava in “Saper vedere l’architettura” che la fotografia rende molto bene l’immagine della scatola muraria ma non può rendere la quarta dimensione (il tempo) e la vita dell’uomo all’interno dell’oggetto architettonico; la fotografia è descritta come uno strumento capace di dare una visione parziale dell’architettura. Cosa ne pensa?

Sono abbastanza d’accordo anche se per un edificio la questione del tempo è più inerente alla vita dell’edificio stesso mentre per me che fotografo l’edificio la questione del tempo riguarda il rapporto che ho con l’edificio nel momento in cui lo fotografo e quindi la quarta dimensione si configura nella relazione tra me e l’edificio in quel preciso momento e nella successione di inquadrature che scelgo per rappresentare il mio percorso attraverso gli spazi che incontro.

Come può la fotografia descrivere un’architettura viva, che cambia continuamente attraverso il

rapporto con il contesto e con il tempo?

L’architettura è viva in quanto è vissuta da uomini che si muovono cambiano,invecchiano,trasformano l’architettura stessa adeguandola alla esigenze del tempo, quindi la risposta è tornare nei luoghi e

riaffrontarli alla luce dei cambiamenti avvenuti e del proprio sguardo diverso. E’ un atteggiamento di ritorno su un tema che ci ha affascinato e che vogliamo verificare per documentarne il cambiamento nel tempo.
A Roma mi è capitato spesso di tornare a fotografare dei luoghi per documentarne il cambiamento negli anni; un esempio è il Ministero delle Finanze all’Eur di cui ho tantissime fotografie che attestano quanto sia cambiato lo spazio dopo le demolizioni parziali, tra qualche anno quando, finalmente, l’avranno demolito tutto sarà interessante vedere un diverso skyline dell’Eur senza quei due edifici.

Esiste, secondo lei, la possibilità che una foto di architettura possa essere vicina alla metodologia di

Henri Cartier-Bresson?

La differenza è nel mezzo che si utilizza. La fotografia di architettura usa generalmente grandi formati di pellicola che costringono ad una ripresa lenta con l’apparecchio fisso sul treppiede per poter leggere direttamente l’immagine in ogni suo punto e non lasciare nulla alla casualità nella composizione. Ciò non impedisce comunque di raggiungere un risultato emozionale attraverso l’attesa di una particolare condizione di luce o l’intervento nella scena di un imprevisto o atteso fattore umano o ambientale. Comunque la fotografia è sempre il risultato di una sintesi espressiva, di un processo interno di visualizzazione che mette insieme cuore e mente.

Come nasce un libro sull’architettura?

Presumo dall’innamoramento per un tema di architettura specifico, ma è una esperienza ancora non fatta e a cui sto pensando.

Cosa è richiesto dalle riviste di architettura oggi? E dalle aziende?

Non ho mai lavorato su schemi editoriali o aziendali. Ho lavorato con Abitare quando c’era ………………., non come un interno della rivista, ma perché apprezzavano il mio lavoro e mi segnalavano alcuni interni da fotografare, senza tuttavia indirizzare le mie scelte stilistiche.
È stata sempre una scelta quella di essere libero, di fare un qualsiasi percorso fotografico orientandomi secondo il bagaglio tecnico raggiunto e l’idea di rappresentazione fotografica che ovviamente nasce dalla mia esperienza culturale di formazione.

Certo le riviste oggi inseguono o impongono degli stili di fotografia che spesso si allontanano dalla tradizione: è possibile presentare delle immagini senza una focalità precisa, o con alterazioni iperrealiste del colore, o nella fascinazione della ripresa notturna . Molti fotografi si adeguano e altri continuano sulla tradizione, forse un po’ penalizzati da questo. Il problema è che l’architettura contemporanea, per esempio, è quasi completamente trasparente ed è chiaro che la trasparenza può essere messa in evidenza soltanto di sera, quando si riesce a traguardare l’interno dell’edificio; in questi casi un certo tipo di immagine diventa quasi è un vincolo, diventa necessaria.

Quanto la rappresentazione fotografica sulle riviste ha influenzato l’architettura?

Certo quello che si definisce architettura oggi attraverso le riviste è il prodotto di una industria editoriale globalizzata che ha imposto modelli di architettura ben fotografata in tutto il mondo come in una immensa vetrina di negozio, perdendo a volte di vista il dove, il come, il quando e il perché.
Siamo ormai abituati a vedere la stessa architettura a HongKong come a NewYork e ancora prima della architettura fotografata è quella virtuale del rendering che isola e decontestualizza i progetti inserendoli nelle

realtà solo per aderire a stili di vita già decisi a tavolino. Un esempio per tutti è l’omologazione della progettazione dei centri commerciali o l’adeguarsi al design di interni abitativi che tutte le riviste ripetono all’infinito.